Meningococco, isterie, Dr Google, medici e pazienti

Come avevo preannunciato nel precedente post, il tema che mi sarebbe piaciuto condividere era quello della “relazione pericolosa” esistente tra internet e mondo medico in generale. E l’attualità si presenta come un bel punto di partenza: le reazioni, posso dirlo?, isteriche, sì isteriche, che si stanno verificando a proposito dei casi denunciati recentemente di meningite da meningococco. Abbiamo assistito a centri di vaccinazione presi d’assalto, reazioni allarmate sui social, medici di base tempestati di telefonate; e tutto questo senza che ci sia stato un intervento allarmistico da parte di alcuna istituzione e, a onor del vero, di alcun giornale.

Ben strano paese il nostro!

Siamo pronti a fare da cassa di risonanza alle notizie dei casi di meningite meningococcica, peraltro diminuiti nel 2016 rispetto all’anno precedente, facendola diventare una epidemia e contemporaneamente siamo, per la caduta del numero delle persone vaccinate, il paese europeo con il maggior numero di casi di morbillo (ricordiamo che muoiono 5 bambini ogni 100 che si ammalano di morbillo) e diamo credito ai legami tra vaccinazioni e autismo.

Possiamo partire da quest’ultimo argomento che mi sembra emblematico.

Nel 1998, Lancet, una delle riviste scientifiche più autorevoli, incolpevolmente pubblica un articolo di Andrew Wakefield, medico inglese, che sosteneva l’esistenza di una correlazione stretta tra diffusione del vaccino trivalente e casi di autismo. Wakefield verrà poi radiato dall’ordine dei medici per aver falsificato in modo fraudolento i dati che stavano alla base del suo articolo:  era stato, infatti, pagato per alterare i risultati al fine di supportare una serie di cause giudiziarie intentate contro le case farmaceutiche produttrici dei vaccini. Successivamente, a conferma della falsità dei dati presentati, nessun ricercatore avrebbe ottenuto gli stessi risultati ottenuti da Wakefield e  si scoprì piuttosto che questi aveva brevettato un sistema di vaccini per sostituire il trivalente che aveva additato nei suoi studi come la causa dell’autismo.  Il risultato, prevedibile, è stato quello veder crollare il numero delle vaccinazioni effettuate nonostante le critiche allo studio incriminato.

Dicevamo prima, episodio emblematico. Emblematico per capire come funziona la comunicazione di massa: una persona scrive, per biechi interessi personali, una serie di stupidaggini e, a seguire,  la panzana si sparge a macchia d’uovo in una catena di S. Antonio senza fine. E non c’è verso che le smentite, autorevoli e serie, sortiscano alcun effetto. Tanto che su Facebook esistono, ancora oggi, comunità anti vaccini formate da più di 18.000 persone che continuano a parlarsi addosso sui  danni certi (?) dovuti ai vaccini, riportando casi personali, che spesso non hanno alcuna relazione con tale pratica e pretendendo di farli assurgere a evidenze scientifiche.

Come mai?

Come dicevo in un post precedente, la nostra è una società in cui i mezzi di comunicazione, tradizionali e non, hanno assurto una dignità assoluta: qualche anno fa si diceva, a conferma delle proprie tesi “l’ha detto la televisione”, e oggi aggiungiamo  “su Internet dicono”. Anzi la rete attualmente viene vista come più corretta della carta stampata. Tanto da arrivare al punto di pensare che un “tribunale del popolo” (formato da chi?, scelto come?) sia in grado di giudicare le notizie pubblicate. A questo si aggiunga  l’idea ingenua e infondata che la tecnologia, anziché portarci strumenti, ci porti soluzioni.

Siamo, ormai da qualche anno, entrati in una società profondamente influenzata dall’informazione. Informazione particolare e parcellizzata che ci porta a sapere sempre di più, ma anche a capire sempre di meno notizie e commenti la cui la qualità è inversamente proporzionale alla sua quantità. Informazione che è fortemente caratterizzata da ipersemplificazione. Questo perché, contemporaneamente, con una sorta di elogio del “pensiero debole”, si pensa che il semplice essere uomo fornisca una patente non solo per esprimere le proprie idee, cosa evidentemente corretta ma addirittura per pretendere che queste vengano elevate a verità assolute. Si è perso il concetto di autorevolezza, spesso identificata con la collusione con “poteri forti”, con i gruppi economici internazionali, la Bilderberg, viste come le “potenze plutocratiche massoniche” del famigerato ventennio fascista. Nel momento in cui viene a mancare il credito all’autorevolezza delle fonti, chiunque dunque si sente autorizzato a presentare una sua lettura della realtà.  Ovviamente sarà una lettura banale e semplificata che da l’idea, falsa, di capire tutto, di avere occhi penetranti per non farsi prendere in giro e andare oltre, per vedere complotti e false relazioni. Si dimentica, in effetti, che la realtà è complessa, articolata, non banale e soprattutto piena di rimandi ed interconnessa e che necessita per essere capita, oggi ancor di più, di qualificazione. Diventiamo così tutti, senza esserlo, esperti di economia, di strategia politica e, ovviamente anche di medicina, di malattie e farmaci. Effetto di questa deriva è domandarsi A cosa ci servono i medici? In fondo abbiamo Google (anzi Dr Google), Wikipedia, FB e possiamo trovare in questi mezzi tutte le informazioni che ci servono, ovviamente, per farci una diagnosi, decidere quali esami fare per una conferma diagnostica, e naturalmente impostare la terapia corretta. Alla peggio se, ad esempio, penso di essere affetto da colite ulcerosa potrò andare sui forum dedicati a questa malattia per cercare conferma dei miei sintomi e le terapie, alternative ovviamente, che mi possono giovare.

Date queste premesse il passo verso il  rogo del web e dei social apparentemente dovrebbe essere molto breve. Tuttavia c’è un però.

Come dicevo prima, sono assolutamente convinto che la tecnologia in generale e il web in particolare siano ormai, inutile negarlo, una caratteristica della nostra società  e siano mezzi estremamente potenti con una avvertenza: esse ci forniscono degli strumenti che vanno dunque utilizzati appunto come mezzi; potenti ma pur sempre mezzi e non soluzioni. Personalmente non sono dunque, nonostante le precedenti osservazioni, contrario all’uso di queste tecnologie in ambito medico. Sono piuttosto ostile, invece, al suo uso distorto.

Non è quello che dice il web

Siamo in presenza di sconvolgimenti sociali enormi e soprattutto con accelerazioni impressionanti. E i cambiamenti vanno governati e gestiti; diventando capaci, nella fattispecie, di utilizzarli al meglio, senza demonizzarli. Per venire all’aspetto che qui ci interessa, noi medici spesso non siamo stati, e molti ancora non sono, in grado di interfacciarsi con queste realtà nuove, spesso viste come antagoniste. Dobbiamo, piuttosto, avere un atteggiamento onesto e domandarci piuttosto perché i pazienti sentano il bisogno di confrontarsi più con Internet che con il proprio curante. C’è più di un elemento che avvalora il sospetto che anche noi medici  abbiamo le nostre responsabilità. Quanto tempo abbiamo “perso” per parlare al paziente? Quanto abbiamo creduto ad una medicina basata sulla narrazione del paziente? Quanto lo abbiamo fatto parlare prima di interromperlo? Quante volte ci siamo ricordati che, se ascoltato, è il paziente che ci fornisce la diagnosi? Quanto lo abbiamo considerato come un valido interlocutore con pari dignità, seppur con ruoli differenti? Molti miei colleghi al sentire il paziente dire “ho letto su internet, sulla base dei miei sintomi, che potrei essere affetto da..” spesso reagiscono con fastidio se non con aggressività, valutando questa affermazione una svalutazione del proprio ruolo. Evidentemente se non trova dal suo medico una risposta alle sue domande si rivolgerà ad altri mezzi vedi la rete nelle sue varie declinazioni.  Non ci addentreremo oggi nell’analisi dell’evoluzione del rapporto medico/paziente e di come si si sia via via modificato negli ultimi anni: magari ne parleremo in uno dei prossimi post. Qui piuttosto si vuole parlare del risultato finale di questa evoluzione, quello che è stato definito “protagonismo del paziente”. Il paziente non è più un soggetto passivo, semplice ricevitore di informazione ma un soggetto attivo che va alla ricerca di delucidazioni e spiegazioni delle sue condizioni. Soggetto che vuole decidere sulla base di informazioni che ha. Un esempio di questo nuovo atteggiamento e del suo rilievo ci viene confermato dalla legge che considera obbligatorio, prima di qualunque procedura, ottenere quello che è il consenso informato: pessima traduzione italiana del “informed consent” anglosassone. Dovrebbe essere meglio tradotto con informazione condivisa. In questo senso il tecnico fornisce l’informazione chiara, esplicita ed il paziente ha la facoltà di accettare quanto proposto oppure di rifiutarlo. Ricordiamo che la condivisione avviene tra soggetti con pari dignità.  Parleremo nei prossimi post di questi aspetti così rilevanti

La gente non è mai stata così bene e non si è sentita mai così male.

 

 

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