Nasruddin, desiderio, attaccamento, la grande abbuffata

Il racconto che segue ci viene dalla tradizione sufi, la corrente mistica dell’Islam, ed è tratto da un libro di M. Epstein,  “Buddha, Freud e il desiderio”.

“Un uomo siede in mezzo alla piazza di un mercato arabo piangendo a dirotto davanti a un vassoio di peperoncini sparpagliati a terra. Ne afferra uno dopo l’altro senza sosta, con metodo, scegliendolo con cura,  se lo mette in bocca e, mentre lo mastica deliberatamente, geme in modo incontrollabile. «Cos’hai, Nasruddin?» gli chiedono i suoi amici, attratti da quello spettacolo inconsueto. «Cosa c’è che non va?» Le lacrime scorrono lungo il viso di Nasruddin che farfuglia una risposta. «Ne sto cercando uno dolce» dice ansimando”.

Come molti racconti che nascono da una visione mistica, nel senso più ampio del termine,  cristiana, buddista o sufi che sia, anche questo ha la capacità di darci uno spaccato della nostra vita, sotto forma di metafora, mettendone in luce le contraddizioni. Il racconto della sofferenza di Nasruddin rappresenta la nostra vita: l’oscillare continuamente tra il desiderio accompagnato alla disillusione e il dolore da una parte e il riconoscere, forse anche in modo inconscio, che il desiderio rappresenta anche un potente motore del cambiamento e della nostra crescita.

La parola “desiderio” viene dal latino, formato dal prefisso  “de” (senza) e “sideris” (stelle), e viene probabilmente dagli indovini di epoca romana che avevano bisogno delle stelle per predire il futuro. Il termine ha già dunque in sé il senso della mancanza: avere desiderio di qualcosa equivale a sentire la mancanza di qualcosa, qualcosa che evidentemente non abbiamo. A questo punto vale la pena di approfondire a cosa si riferisce questa assenza. Ci si riferisce a un desiderio di una passata condizione perduta, a una nostalgia (etimologicamente dolore per il ritorno), come nel caso di Ulisse che rimpiange Itaca? Quasi un ritorno alla condizione originaria in cui principio e fine si identificano?  Oppure al desiderio di un futuro in parte temuto e contemporaneamente desiderato che si sposta continuamente sempre più in avanti? Il filosofo Levinas fa impersonare ad Abramo questo bisogno; è lui che lascia l’Egitto per una terra promessa ma sconosciuta. Materializzazione della ricerca di senso, di Assoluto.  E’ interessante notare che nella Bibbia Abramo non vedrà la terra promessa. Desiderio, dunque, di un futuro desiderato che non si riuscirà mai a raggiungere e ad abitare. Così come è interessante vedere la differenza tra desiderio e bisogno che è sostanziale: il bisogno è determinato da un oggetto, mentre il desiderio si associa ad un orizzonte più alto. La fame o la sete sono dei bisogni in quanto per essere soddisfatti hanno necessità solo di un oggetto: una bistecca o dell’acqua; mentre il desiderio non può essere soddisfatto da oggetti, pena una evidente insoddisfazione.

Gli animali sentono dei bisogni, ma non possiamo dire che abbiano dei desideri. Il desiderio, infatti, pur essendo legato al mondo dell’istintualità, e dunque dei bisogni, presuppone un universo più ampio, anche culturale, che al bisogno manca. Pensiamo a cosa vuol dire per un Uomo nutrirsi: non è solo soddisfare il senso di fame, ma anche e soprattutto soddisfare questa necessità nell’ambito di relazioni personali ed affettive. In tutte le culture, infatti, il mangiare ha notevoli connotazioni culturali e sociali. Basterebbe citare, a questo proposito, come il mangiare si associ ai riti di passaggio: la morte, il battesimo, i matrimoni. In questi momenti una comunità, amici, persone legate allo stesso credo, etc si ritrovano nel terreno delle relazioni. Il desiderio di pranzare non è solo il bisogno finito di sedare la propria fame, ma è anche il desiderio di ritrovarsi insieme ad un’altra coscienza, da cui essere riconosciuti, consolati e confermati. Siamo continuamente alla ricerca della soddisfazione di un desiderio pur con tutte le disillusioni del caso. Il desiderio, infatti, sembra non avere, da una parte, memoria di esperienze passate (il peperoncino precedente); dall’altra capacità di illuminare il futuro. Come Nasruddin, anche noi siamo in preda alla ricerca di un “peperoncino dolce”. E la scoperta del dolore che ci fa piangere non sembra in grado di eliminare o quanto meno ridurre il desiderio. Desiderio che non impara mai, che non apre mai gli occhi. Anche quando non suscita altro che sofferenza, continua a agire attraverso i nostri comportamenti. C’è uno «iato incolmabile» tra il desiderio e la soddisfazione, il divario responsabile della nostra frustrazione

Nello stesso tempo attribuiamo al desiderio anche la ragione del cambiamento. E’ il desiderio che ci fa insistere perché non ci lascerà in pace, ci sarà sempre un “piano b” per la sua soddisfazione, e il desiderio si accompagna sempre alla speranza che non accetta il no come risposta. Dice Freud “Il desiderio ci fa andare avanti, anche quando ci prende in giro”. Va a lui il merito di aver identificato nell’Eros il motore che “tutto move”; pur con i limiti di una visione che poneva la sessualità il centro dell’Eros, a differenza di Jung. Quest’ultimo, infatti,  aveva messo in evidenza come anche le aspirazioni e, soprattutto, la la ricerca di senso e di Assoluto “tutto  muovono”. E’ il desiderio «che esercita su di noi un’azione così perentoria», che ci spinge a trovare dentro di noi i mezzi per raggiungere un obbiettivo irraggiungibile e tuttavia irresistibile. E’ questo secondo aspetto del desiderio quello che dobbiamo salvare.

Ma allora il desiderio è da condannare?

La storia del pensiero orientale , buddista in primis, ha identificato nel desiderio la principale origine della sofferenza. Dunque, quella che potremmo chiamare psicologia buddista, pone la rinuncia e l’assenza di desiderio come primo antidoto al dolore. Anche nella cultura occidentale, pensiamo agli epicurei o al cristianesimo, fin dagli albori, troviamo un frequente richiamo alla necessità di tenere a freno il desiderio.

Penso che il punto centrale non sia tanto quello del desiderio ma quello dell’attaccamento. Il momento in cui ci attacchiamo spasmodicamente all’oggetto del nostro desiderio, o meglio del nostro bisogno, disposti a rinunciare a tutto pur di ottenerlo. Mi vengono in mente tanti episodi di cronaca, di donne uccise, sfigurate o stuprate nell’assunzione del credo “mia o di nessuno”. Questa relativizzazione dell’altro a oggetto di soddisfazione del mio bisogno psicologico o affettivo. L’altro che diventa, se non fosse drammatico, la mia “coperta di Linus” senza cui non posso affrontare la vita. Qui il desiderio è assente c’è solo la soddisfazione di un bisogno. Allora il problema, enorme,  nasce quando il bisogno si sovrappone e si identifica con il desiderio e si cerca di soddisfarlo con la ricerca della quantità piuttosto che dalla qualità: sesso, droga e cibo. C’è un film che illustra molto bene questa realtà con l’assolutizzazione dei mezzi che diventano fini: “La grande abbuffata” di M. Ferreri. In una villa decadente nei dintorni di Parigi un gruppo di amici cerca di suicidarsi con un eccesso di sesso e di cibo.

Sulla base di questi principi  gli amici di Nasruddin si domandano il perché di un atteggiamento così bizzarro e si chiedono perché non smettere, così semplicemente; dimostrando, anche loro, di non aver capito il senso profondo del desiderio. Andiamo, invece, incontro al desiderio, abbracciandolo. Abbracciando anche e soprattutto la ricerca di senso che il desiderio, e non il bisogno, nasconde. Attiviamo la consapevolezza, in fondo siamo tutti un po’ Abramo alla ricerca della terra promessa, che forse non vedremo. Ma la ricerca mossa dal desiderio è in fondo già la terra promessa.

Viandante, le tue orme sono
il cammino e niente piu’;
viandante, non esiste il cammino,
Il cammino si crea camminando.

Camminando si fa il cammino
e girando indietro lo sguardo
si vede il percorso che mai piu’
si tornera’ a percorrere.

A. Machado 

 

Condividi l’articolo

0
    0
    I tuoi acquisti
    Il tuo carrello è vuoto