I regali della morte: che questa ci trovi vivi

I recenti fatti, drammatici della “tempesta perfetta”, neve e terremoto, abbattutasi sul centro Italia con il relativo corollario di morti mi induce a fare alcune considerazioni. Entro, dunque,  oggi in un territorio pieno di insidie, con passi delicati e felpati, con grande rispetto e attenzione. Rispetto e attenzione, innanzi tutto, nei confronti di chi ha subito o sta subendo una perdita e di chi, forse per la prima volta, realizza in sé, esitenzialmente, la propria mortalità. Si, perché vorrei parlare proprio della morte. Territorio pieno di insidie perché è facile cadere in considerazioni sdolcinate o, peggio, nella negazione. Negazione, in varie maniere portata avanti, come se la morte fosse un evento eccezionale, totalmente alieno dalla nostra vita. Come se, in qualche maniera, questa realtà non ci accompagnasse in modo discreto, nell’ombra  ogni giorno, in attesa di poter diventare reale. Entro in questa terra con la consapevolezza di 40 anni di vita ospedaliera che più di una volta mi hanno fatto abitare queste terre, e con la consapevolezza di lutti familiari vissuti. Non parlo con la sapienza del filosofo, che non sono, ma di chi si è trovato spesso a contatto con questa realtà ineludibile e  inevitabile.  Ne parlo piuttosto come essere umano che percepisce come reale una delle due certezze della vita di ogni uomo, come dice il saggio: la nascita e la morte.

Tralascio le varie fasi che passa chi realizza che dovrà morire perché colpito da una malattia che ha questa prognosi certa. Questi sono stati molto ben descritti per prima dalla psicologa e tanatologa Kübler-Ross, vera antesignana e studiosa “Sulla morte e sul morire” dal titolo del suo libro più famoso pubblicato nel 1969. In questo libro la Kübler-Ross ha sintetizzato le sue esperienze con i malati terminali. Famosa la sua sistematizzazione  dei cinque stadi di reazione alla prognosi di morte: diniego, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione. A questo basilare testo rimando per gli approfondimenti del caso. Ma sulla morte ed il morire è stato il primo a cui ne sono seguiti tanti altri: a me piace ricordare i libri di Marina Sozzi per la lettura interdisciplinare del fenomeno morte.

Quello che qui mi interessa è piuttosto parlare della morte quando questa appare, falsamente lontana. Dato che un trattato sulla morte  non è nelle mie intenzioni mi limiterò a condividere, piuttosto, alcune riflessioni su quanto questa “grande maestra” ci possa insegnare quando ancora è lontana, anche se non sappiamo mai quanto lontana, facendo alcune osservazioni di contorno che ritengo importanti per contestualizzare .

La prima osservazione, forse una banalità evidente, è che la morte è diventato uno dei pochi tabù rimasti nella nostra società. Quella che stiamo vivendo, infatti, è  forse l’unica cultura che è arrivata al punto da negare, nei fatti, la realtà della morte. Anche alle nostre latitudini, fino a 40 – 50 anni fa, la morte era una realtà condivisa: si moriva in casa, anche da bambini si assisteva alla morte di qualche congiunto, etc. Esistevano dei riti che permettevano quell’operazione importante per chi resta che è l’elaborazione del lutto; riti di passaggio che, in parte, sono stati eliminati senza aver ancora trovato una degna sostituzione.  Con queste operazioni parenti, amici e conoscenti si stringevano intorno a chi restava per far sentire una vicinanza umana e psicologica che rappresentava una sorta di scialuppa di salvataggio nel percorso di elaborazione del lutto. Esempi di questa negazione li troviamo nella delega sempre più ampia concessa al mondo medico; anche se a far da contraltare a questa delega troviamo una sempre più pressante richiesta di una legge sul fine vita e sul testamento biologico che ponga nelle mani del morente le scelte ultime. Li troviamo nella difficoltà e nel disagio che proviamo nell’andare a trovare una persona gravemente ammalata e dal destino segnato; nel silenzio che accompagna a volte queste visite: silenzio dovuto alla nostra incapacità di trovare le parole giuste semplicemente perché non le possediamo dentro di noi.

Faccio, ora, un’osservazione: Freud scriveva di sesso e di eros nella Vienna a cavallo tra il 1800 e il 1900 in una società sessualmente repressa in cui gli aspetti affettivi erano disgiunti dalla sessualità. E identifica nella rimozione di pulsioni sessuali ritenute “pericolose”, la genesi dell’isteria e, in generale, della nevrosi. E dopo questa osservazione mi viene una domanda: se la rimozione di contenuti sessuali determina l’isteria e la nevrosi, quali “disturbi” genera la rimozione dell’idea della morte? Cosa paghiamo in termine di sofferenza psichica, quali rischi corriamo nel negare così violentemente, nei fatti, l’esistenza della morte? La psicanalisi ci ha insegnato che quello che viene negato e fatto sprofondare nell’inconscio continua, sotto traccia, a produrre i suoi effetti, generalmente negativi. La principale indiziata è, forse, la depressione, con il suo punto centrato  sulla perdita anche solo evocata. E’ una mia impressione ma certamente non è forse un caso che sia la patologia psichica più frequente e in maggior aumento nella nostra società occidentale. Stando ai dati di una recente analisi condotta in Europa, nel prossimo 2030 le malattie psichiatriche saranno le più comuni nella popolazione. La ricerca ha preso in esame sei diversi Paesi, compresa l’Italia, arrivando a valutare che almeno il venti per cento degli individui è destinato a vivere dolorose esperienze legate alla depressione.

Una seconda considerazione  che mi viene da fare è che il concetto di morte non può essere definito se non in relazione al termine vita; in questo senso vita/morte è un binomio inscindibile. Evidentemente può morire solo quello che è vivo, e può, paradossalmente vivere solo quello che può morire: è una necessità biologica.  Basterebbe citare l’osservazione, a questo proposito, che miliardi di cellule del nostro corpo, ogni giorno, muoiono e solo allora possono essere sostituite da nuove cellule. In questo senso la morte è un concetto molto ambiguo e ben poco definito come ambiguo e poco definito è la parola vita. Certamente le conseguenze subite dalla perdita di una persona cara sono molte ed estremamente varie dipendendo dalla presenza o meno di una fede, non obbligatoriamente religiosa, dalla presenza di una rete di protezione, dalla subitaneità dell’evento, dal proprio mondo interno, dalle condizioni anche economiche, etc. Possiamo dire che forse ci sono tanti lutti quanti sono le persone al mondo. Ognuno ha la  propria modalità e la propria visione che, inevitabilmente, impatterà in modo diverso.

Ma cosa dire quando questa è ancora apparentemente lontana?

Certamente, al di là della psicopatologia, negare la morte vuol dire anche privarsi dei “regali” e delle possibilità che, paradossalmente questa può darci. Vediamone qualcuno.

In primo luogo accettare la morte vuol dire accettare il senso dei limiti della nostra esistenza. Se accetto la mia mortalità, allora anche la vita prende un sapore diverso. Tutto viene, in un certo senso testato, messo alla prova. Successo, denaro, riconoscimenti, posizione sociale, così considerati nella nostra società, perdono di importanza e sbiadiscono. Che senso ha dannarsi la vita per ottenerli, se “non te li puoi portare appresso” e sono destinati a scomparire? E’ un prezzo giusto quello che sto pagando per ottenerli? A cosa sto rinunciando? A ben vedere l’accettazione della propria morte, in questo senso, è forse l’atto più rivoluzionario e di rottura che possiamo fare nei confronti dei miti del nostro mondo e della società in cui viviamo. Accettare l’ottica della mia mortalità mi permette, come effetto, di non essere più obbligato a piacere agli altri, a ottenere sempre la loro approvazione. Posso tirarmi fuori da questo gioco perverso che mi impedisce la libertà di percorrere la mia strada, di vivere la mia vita. Hillmann aveva parlato del “daimon” quasi un angelo custode che ci ricorda continuamente il senso della nostra vita in questo mondo. Beh, il riconoscere e guardare in faccia la nostra morte ci permette di ascoltare più facilmente il nostro daimon. Vuol dire accettare la possibilità del cambiamento come parte integrante del processo vitale e concedersi il lusso di portarlo alle estreme conseguenze.

In secondo luogo accettare la propria morte, come nella livella di Totò, vuol dire relativizzare anche le pretese del nostro sempre ingombrante Ego. Siamo tutti destinati e avviati alla stessa fine. In questo senso, tale  condivisione ci mette “democraticamente” tutti sullo stesso piano. Quali diritti posso accampare più degli altri se siamo così esistenzialmente uguali? Ha senso negare agli altri qualcosa, spesso vitale per una condizione veramente umana? Qualcosa che, viceversa, pretendiamo per noi?

In terzo luogo, anche se sono in buona salute e sto bene, non posso sapere quando arriverà il momento. Ma arriverà. Se mi metto nell’ottica di essere a termine, allora avrò la capacità di vivere in modo consapevole, potrei dire mindful, lo svolgersi dell’esperienza momento per momento. Vuol dire essere più pienamente nell’oggi evitando di entrare nel domani, che non è ancora, e di restare nel passato, che non è più. E’ interessante notare che questo vivere nel presente, accettare tutto quello che la vita ci propone, bello o brutto che sia, è la base di quel viaggio “di scoperta e guarigione” che sono i protocolli basati sulla Mindfulness.

Infine, uno dei motivi per cui la morte è così angosciante è rappresentato dal fatto che sappiamo di avere delle enormi, qualcuno dice infinite, potenzialità di sviluppo. In sostanza, sappiamo nel profondo che la durata della nostra vita non sarà sufficiente per sviluppare tutto che avremmo potuto realizzare. Il gatto ha certamente un istinto di conservazione ma non ha paura di morire, l’uomo ha tutte due. Il gatto sa di aver sviluppato comunque la sua “gattitudine”, l’uomo no. Accettare l’idea della morte, e dunque della inevitabile impossibile realizzazione di tutte le mie potenzialità, comporta anche il senso di libertà presente nell’accettazione dei miei difetti e  delle mie imperfezioni. Posso avere la libertà di essere compassionevole nei miei confronti e in quello degli altri, stante la comune condizione di essere mortali.

La morte, dunque, è una grande maestra; tanto vale cominciare ad ascoltarla.

“Che la morte ci trovi vivi” (M. Marchesi)

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