Linguaggio, cucina e l’epigenetica: ovvero da un pero non può nascere una mela. (1)

Smumiat cla bronzina

(Datti una mossa con il pentolino: autocitazione) 

E’ incredibile, ma il nostro linguaggio, quello di tutti i giorni, da quello che usiamo al lavoro a quello che usiamo con i nostri figli è, anche se non ce ne accorgiamo, una sintesi meravigliosa. Sintesi di racconti notturni quando noi, piccoli e febbricitanti, chiedevamo delle presenze per allontanare febbre e timore del buio e di sgridate per marachelle più o meno gravi compiute nei pomeriggi passati a giocare con gli amici. Sintesi di racconti fatti dal nonno contadino e podestà che, imprigionato dagli americani, veniva reinsediato come sindaco in seguito alle  proteste del CNL (Comitato Liberazione Nazionale) e dei partigiani; e da quelli dell’altro nonno chirurgo e professore universitario che perse la cattedra per non aver voluto prendere la tessera del partito nazionale fascista e che di notte, a lume di candela, nei cascinali della bassa reggiana in Emilia operava i partigiani feriti. Sintesi di quanto la nonna, femminista ante litteram,  ci raccontava della sua protesta concretizzatasi nell’acquisto di un collo di volpi azzurre con relativo conto mandato direttamente al sindaco contadino che aveva passato un week end con la sua “fidanzata” a vedere l’opera all’arena di Verona. Sintesi di parole a volte inventate per rendere più efficace un rimbotto o per sdrammatizzare.

Ognuno di noi ha, nel tempo, fatte proprie frasi, modi di dire, anche le offese, che gli vengono dall’ambiente in cui è cresciuto. E ognuno di noi avrebbe decine e decine di racconti con annesse frasi composte da un vocabolario spesso espressione di creatività sfrenata. Il tutto influenzato da un territorio caratterizzato dal fatto di parlare, a pochi chilometri di distanza, dialetti differenti. Queste sintesi a cui noi via via nel corso degli anni abbiamo aggiunto, limato, cancellato e di quanto chi ci è stato vicino ci ha indotto a fare nostro. E che ovviamente abbiamo trasmesso o trasmetteremo a nostra volta ai figli. E “Lessico familiare” di N. Ginzburg ben fotografa come spesso il linguaggio rappresenti il collante di intere famiglie. Il linguaggio che usiamo è dunque il risultato di questo lungo lavorio di aggiustamento con cui abbiamo introiettato e fatto nostri tutti i linguaggi delle persone che ci hanno preceduto e accompagnato. Non parliamo, poi, se siamo cresciuti con due lingue diverse come avviene quando i genitori hanno due linguaggi diversi o siamo cresciuti in paesi dalla lingua differente da quella dei genitori. Qui la diversità e la ricchezza sarà ancora maggiore. Basterebbe citare il bel libro “La babele dell’inconscio” sulla mente dei bilingui.

La stessa cosa avviene per le ricette di cucina, espressione della ricchezza e saggezza di territori così fortemente e culinariamente caratterizzati. Anche qui è possibile verificare come in moltissime famiglie ci siano ricette e modi di cucinare che si tramandano da intere generazioni. Ricette e modi di cucinare pervicacemente difesi da ogni tentativo di modernizzazione e di contaminazione. Spesso, poi, le ricette si associavano a modi e stili di vita in cui, inevitabilmente, anche il linguaggio finiva per confluire. Non a caso linguaggio e cucina, parola e ricette fanno parte a pieno titolo, entrambe, di ciò che chiamiamo cultura.

Questo meccanismo di acquisizione del linguaggio e della cucina va di pari passo con quanto l’epigenetica, recente branca della genetica, ci ha fatto intravvedere.

Cosa c’entra l’epigenetica con cucina e linguaggio? Molto, perché come il linguaggio e le ricette sono un progressivo travaso di informazioni che via via si spandono per diverse generazioni, è ormai dimostrato che anche le esperienze vissute dai genitori sono capaci di passare, condizionandola, nella vita dei figli, dei nipoti e, forse, anche nei bisnipoti.

Una premessa.

Ognuno di noi  è determinato dalla combinazione di fattori genetici e non genetici che plasmano il nostro sviluppo biologico durante lo sviluppo e nella vita adulta. Quelli genetici, ereditati dai nostri genitori, trovano la loro sede nella sequenza di geni all’interno dei cromosomi,  quelli non genetici sono acquisiti attraverso le esperienze e l’ambiente in cui viviamo. Sappiamo peraltro  anche come esista una forma di trasmissione non genetica di informazioni,  che, pur essendo ricevute dai genitori, non utilizza il DNA dei cromosomi e che, e qui sta il dato interessante, è capace di raggiungere anche la seconda e la terza generazione e forse oltre. Il meccanismo attraverso cui questa trasmissione si realizza utilizzerebbe diverse vie: accensione e spegnimento di geni situati nei cromosomi, sensibilizzazione di aree cerebrali e, soprattutto, alterazioni delle cellule riproduttive spermatozoi paterni e ovociti materni capaci di trasmettersi anche alle 2 e 3 generazioni. L’epigenetica è la branca della genetica che studia proprio questa forma di trasmissione.

Facciamo qualche esempio sia biologico che psicologico.

Dal Novembre del 1944 e fino al Maggio del 1945, durante la ritirata dell’esercito tedesco, il governo olandese in esilio lanciò uno sciopero delle ferrovie per protestare contro l’occupazione tedesca. In risposta a questa azione, il governo di occupazione nazista decretò un embargo alimentare che si associò a condizioni climatiche particolarmente difficili con distruzione di interi raccolti. Il risultato di questi due fenomeni fu una grave carestia: il contenuto calorico giornaliero si ridusse prima a 1000 calorie per arrivare a 500 diarie. Dato che la carestia era presente in una regione circoscritta in un paese come l’Olanda con affidabili registrazioni dei dati alla nascita fu possibile confrontare, dopo 50 anni, gli effetti della carestia con un gruppo di controllo che viveva nelle vicinanze, dunque con le stesse caratteristiche ambientali, ma che non aveva sofferto le riduzioni alimentari. Altro elemento che ha facilitato le ricerche successive fu il limitato periodo di durata della carestia, circa 6 mesi. Rispetto ai controlli, questi i dati salienti:

1) Alla nascita: Basso peso alla nascita, ridotte condizioni di salute
2) A 18 anni: Aumento dei casi di obesità, circa il doppio della popolazione di controllo
3) Adulti: Aumento dei casi di schizofrenia, depressione e comportamenti antisociali
4) A 50 anni: Aumento dei casi di obesità, Ipertensione, malattie cardiovascolari e diabete

Lo studio aveva inoltre evidenziato che gli effetti erano diversi a seconda del periodo di gravidanza in cui le madri avevano subito la riduzione alimentare: nel primo trimestre aumento dei casi di carcinoma della mammella, nel secondo e terzo trimestre problemi cardiopolmonari e diabete. La cosa intrigante è che i nipoti delle madri che avevano subito gli effetti della carestia presentavano gli stessi effetti; dunque si può parlare di effetti che si prolungavano nella 2° e 3° generazione. Gli stessi effetti coinvolgenti più generazioni sono state confermate anche in una popolazione cinese che aveva subito un periodo di scarsità alimentare, come dimostrato da una ricerca pubblicata lo scorso anno. Questi studi, per citarne solo due,  evidenziano come le condizioni di vita della madre siano capaci di determinare delle alterazioni a livello delle cellule non solo del feto ma come queste alterazioni siano presenti e si mantengano anche a livello dei nipoti. Si tratta dunque di un evento o per meglio dire di una serie di modificazioni ereditate non attraverso i cromosomi ma attraverso meccanismi, appunto, epigenetici.

Passiamo ora agli aspetti psicologici.

Nel corso degli anni, una serie di studi hanno messo in evidenza come non solo i discendenti dell’Olocausto ma anche i discendenti di vittime di guerra, torture e genocidi, sopravvissuti ai traumi di guerra, violenze sessuali e sindrome post traumatica da stress (PTSD) etc presentino una maggiore frequenza di PTSD stessa, disturbi mentali e un alterato sviluppo neurocomportamentale fino alla terza generazione ed oltre. Si è sempre pensato che la causa di questa trasmissione ai figli fosse legata a disturbi nel rapporto genitori/figli, o a problematiche relative all’accudimento del neonato o infine a un ambiente familiare sfavorevole legati ai disturbi dei genitori. In sostanza si poneva l’accento su problemi relazionali, culturali ed educativi. In effetti, una serie di osservazioni hanno successivamente sempre più messo in evidenza l’importanza della trasmissione attraverso meccanismi epigenetici delle esperienze traumatiche dei genitori, anche e soprattutto avvenute prima del concepimento. In poche parole lo stress avvenuto nei genitori prima del concepimento determina una modificazione di spermatozoi paterni e ovociti materni, capaci di trasmettere ai figli, nipoti e oltre, la “cicatrice” dell’evento traumatico; rendendoli anche più soggetti a disturbi nervosi e psichiatrici. Il fatto che un genitore sia stato abusato da bambino determinerà una modificazione delle sue cellule riproduttive che renderà  più probabile nella propria discendenza un disturbo mentale.

Vedremo nel prossimo post quale sia l’apporto della madre e del padre nel determinismo di questi fenomeni e soprattutto cosa possiamo fare per ridurre l’impatto dei traumi nella  nostra discendenza.

 

Condividi l’articolo

0
    0
    I tuoi acquisti
    Il tuo carrello è vuoto