COMPASSIONE E AUTO COMPASSIONE – PERCHÉ SÌ … MA IO QUANTO SONO COMPASSIONEVOLE? (TEST) 3° parte

A conclusione del tema della compassione, ho pensato di dedicare uno spazio autonomo a un suo aspetto particolare che è presente nelle psicoterapie più recenti: l’auto compassione. Diciamo subito che con questo termine non intendiamo un atteggiamento auto assolutorio di atti, atteggiamenti e modalità di relazione poco raccomandabili. Si tratta piuttosto di “prendere contatto”, come abbiamo già detto nel precedente articolo, con la nostra “ombra”, con un atteggiamento di accettazione e di volontà di curare piuttosto che giudicare i nostri errori, fallimenti e sensi di inadeguatezza, associati spesso a tristezza o al senso di colpa. In sostanza, come nella compassione la percezione della sofferenza dell’altro ci porta non solo a condividerla ma soprattutto a mettere in atto quanto possiamo concretamente fare per alleviarla, nell’auto compassione questi aspetti sono riuniti in un unico soggetto: chi prova compassione e chi la riceve sono un’unica persona.

Detta così sembra facile! Ma tutti sappiamo che, mentre avere compassione per una persona in difficoltà e attivarsi per ridurla può essere facile, non altrettanto lo è quando la persona in sofferenza siamo noi stessi: spesso noi siamo i nostri peggiori giudici e carnefici. Questo deriva dal fatto che, erroneamente, la nostra cultura non ne ha un’idea positiva e anche nella storia della filosofia (vedi Kant e Nietzsche) l’auto compassione non ha goduto, nel tempo, di buona fama. Diciamo subito che, come dimostrato da Chwil e coll, chi ha idee negative sulla auto compassione tende anche a essere anche poco auto compassionevole e, di conseguenza, anche meno compassionevole nel confronto degli altri.

Vediamo le principali critiche e “i no” che ad essa sono state fatte e verifichiamole

Perché no e perché sì

L’auto compassione ci rende deboli e incapaci di far fronte alle sfide della vita

La ricerca scientifica ha dimostrato che le persone che ne hanno un buon livello sono più resilienti; basterebbe questo lavoro per confermarlo (qui):

  • Usano strategie più funzionali come l’accettazione e la rivalutazione cognitiva senza cadere negli evitamenti esperienziali ed emozionali
  • Sono più resilienti in situazioni come divorzio, violenze sessuali e domestiche e in caso di catastrofi presentando sintomatologie più sfumate in caso di Sindrome Post Traumatica da Stress. La stessa resilienza la troviamo anche in caso di malattie croniche invalidanti e cancro in cui vengono gestiti i sensi di colpa

L’auto compassione porta ad essere più egoisti e meno interessati agli altri

Tutti sappiamo come si possa essere compassionevoli verso gli altri e poco per se stessi, ma la ricerca ha dimostrato che esiste una correlazione diretta tra auto compassione e facilità al perdono e percepita esperienza di interconnessione. Tutto questo è dimostrato da questi dati presenti in letteratura; le persone auto compassionevoli

  • Sono più pronti ad aiutare gli altri anche in situazioni di emergenza
  • Tendono ad essere più disponibili al compromesso in caso di relazioni conflittuali.
  • Se hanno funzioni di caregivers (persone che si prendono cura) di un bambino autistico, di un anziano non autosufficiente con demenza o svolge una professione di cura come infermiere, medico, terapista etc presenterà
    • Minore stress – Minore incidenza di depressione e di burnout

Dunque l’auto compassione lungi da farci diventare più egoisti, ci fornisce gli strumenti per essere più efficienti nell’aiutare gli altri

L’auto compassione riduce le motivazioni a migliorarsi

Questa critica è, forse, la più forte e, apparentemente, la più sensata: “se mi accetto e mi critico poco non avrò la spinta per migliorare”. In effetti la ricerca ci dice altro, che l’auto compassione:

  • Riduce il perfezionismo con la relativa paura di commettere errori e aumenta la resilienza nei confronti dell’accettazione dei possibili errori, visti come opportunità di crescita
  • Determina minore ansia e riduce la tendenza ad atteggiamenti auto sabotanti come rimandare; atteggiamento tipo della persona ipercritica e perfezionista.
  • Aiuta a relazionarci nei confronti degli obiettivi da raggiungere in modo saggio, centrando l’attenzione su quelli cosiddetti di abilità che suscitano il mio interesse e meno su quelli di prestazione che sono più legati al riconoscimento esterni da parte degli altri

Ci sono ora due aspetti comuni presenti sia nella compassione sia nell’auto compassione che vorrei sottolineare e su cui penso valga la pena di soffermarci per la valenza che hanno: la consapevolezza della nostra sofferenza e il senso di interconnessione.

La Consapevolezza della sofferenza

Una favola dei fratelli Grimm può aiutarci a entrare nel tema:

Un bambino sedeva per terra davanti alla porta di casa e aveva accanto a sé ‚ una scodellina di latte e pezzi di pane, e mangiava. In quel mentre arrivò una serpe strisciando, ficcò la sua testolina nella scodella e mangiò con lui. Il giorno dopo tornò ancora e così ogni giorno per un certo periodo di tempo. Il bambino la lasciava fare, ma vedendo che la serpe beveva sempre solo il latte e non toccava i pezzetti di pane, prese il suo cucchiaino, la batté‚ un poco sul capo e disse: -Su, mangia anche il pane!-. In quel periodo il bambino era diventato bello ed era cresciuto. Un giorno la madre se ne stava dietro di lui e, vedendo la serpe, corse fuori e l’ammazzò. Da quel momento il bambino incominciò a dimagrire e infine morì.

Le favole, come le metafore e la poesia, hanno la capacità, e direi la funzione, di modificare il nostro modo di vedere il mondo e la realtà, dandocene una nuova chiave di lettura. Così possiamo vedere il serpente come quella parte di noi con cui dobbiamo rapportarci; quelle parti di noi che ci disturbano e, soprattutto, la nostra sofferenza quando siamo fronte ad errori commessi oppure a momenti di snodo della nostra vita come l’insorgere di una malattia grave o la rottura di una relazione significativa. Il bambino ha nei confronti del serpente un atteggiamento non giudicante, lo guarda e forse sorride. Non ne ha paura ed anzi lo invita a mangiare anche il pane. Questo invito rappresenta il nostro accettarle, nutrendole se possibile, curandosene. La cosa interessante è che in questo rapporto di accudimento del nostro mondo interiore e della sofferenza possiamo star bene e prosperare. La morte del serpente, o se volete il suo scomparire, porta metaforicamente a morte il bambino. In altre parole, il non voler vederla è negativa e disfunzionale.

Un altro racconto con lo stesso messaggio lo troviamo in racconto buddhista e racconta che dei monaci andarono dal Buddha per lamentarsi che la notte erano assillati da una serie di demoni che non li lasciavano riposare. Il consiglio del Buddha fu quello di non combatterli ma di benedirli quando si fossero ripresentati. La storia termina raccontando che da quando seguirono il suo consiglio non furono più disturbati. Questi atteggiamenti accudenti sono possibili solo se siamo capaci di abbracciare la nostra sofferenza, essere consapevoli della sua presenza, sentire come e dove riverberano nel corpo le emozioni problematiche come la rabbia o la paura.

Dunque la consapevolezza della propria sofferenza deve essere accompagnata dal guardarla in profondità, dalla volontà di farsene carico e di mettere in atto quei comportamenti capaci di alleviarla. Come dice la saggezza orientale, il dolore è inevitabile la sofferenza è opzionale.

La consapevolezza della interconnessione.

Abbiamo già parlato dell’interconnessione, o se volete dell’inter-essere, nel precedente articolo (qui). Nell’auto compassione il senso di interconnessione acquista una valenza e un’importanza particolare perché la percezione di essere interconnessi ci fornisce una cornice più ampia in cui collocare la mia sofferenza personale e i miei sensi di colpa. Normalmente, quando siamo ipercritici nei confronti di noi stessi, siamo portati a pensare di essere gli unici che sbagliano o che si trovano a affrontare nella vita momenti difficili. Questo non è un processo razionale ma una reazione emotiva che ha come effetto quello di sentirci isolati e aumentare la nostra sofferenza. Quando invece percepiamo che tutti gli esseri umani soffrono anche se i motivi della sofferenza, la sua intensità e le sue circostanze sono diversi, entriamo in contatto profondo con la realtà di una umanità debole, sofferente e facile all’errore.

Due parole infine sulla Mindfulness che rappresenta quello che unisce tutti i punti che abbiamo trattato. È attraverso la Mindfulness che possiamo essere consapevoli della nostra sofferenza, guardarla nel profondo senza negarla o evitarla, sentirla nel suo riverberare nel corpo e farcene carico; il tutto senza giudicarci in modo severo.

Alla fine di questo viaggio nella compassione e nell’auto compassione vi starete chiedendo: “… ma io, quanto sono auto compassionevole?” In questo link è possibile fare il test proposto da K. Neff la maggiore esperta mondiale di auto compassione che ha dedicato 20 anni di lavoro scientifico a questo tema

… Buona auto compassione