Mindfulness & Psicoterapia

Dopo tutto quello che abbiamo detto sulla Mindfulness, sui suoi effetti sul sistema nervoso, sui neurotrasmettitori, sulla impressionante mole di lavori scientifici etc, è comprensibile l’interesse che la psicoterapia in generale e quella cognitivo comportamentale in particolare hanno dimostrato nei confronti della Mindfulness. Tanto che la cosiddetta “terza onda” della terapia cognitivo comportamentale, generalizzando, si caratterizza per l’utilizzo, con diversa intensità, delle pratiche di consapevolezza.

Tuttavia, è necessario rispondere ad alcune domande per valutare l’impatto dell’uso della Mindfulness in psicoterapia.

La prima: è pensabile che la Mindfulness da sola sia una sorta panacea universale, applicabile a tutte le patologie e i disagi mentali? A questa domanda ha risposto Teasdale, l’autore insieme ad altri ricercatori, di un protocollo validato per la recidiva degli episodi di depressione maggiore la MBCT (Terapia cognitiva basata sulla mindfulness) e di cui parleremo più avanti. In sostanza, dice Teasdale, la risposta è negativa; in quanto non si può prescindere dalla patologia che vogliamo trattare. Questo è confermato dal dato di letteratura scientifica che evidenzia come pazienti depressi avevano un rischio di ricaduta minore se sottoposti a MBCT rispetto alla semplice MBSR; in quanto la MBCT utilizza aspetti particolari della Mindfulness utili nel contrastare le ricadute, in particolare il contrasto al rimugginio. Dobbiamo dunque concludere che la Mindfulness sia utile in psicoterapia solo e se abbinata ad un’analisi puntuale del caso in oggetto e tenendo presente che le pratiche di consapevolezza, anche nella cultura buddhista da cui trae origine la mindfulness, si presentano come una realtà multi sfaccettata.

La seconda domanda a cui dobbiamo rispondere, per esigenze di chiarezza, è se la mindfulness sia una forma di meditazione. Sebbene alcuni studiosi neghino tale possibilità, la maggior parte dei ricercatori risponde positivamente; sia perché come vedremo tutti i protocolli prevedono un uso importante di pratiche meditative di un qualche tipo, sia perché la cultura di riferimento, quella buddhista, utilizza pratiche di meditazione formale.

La terza: la Mindfulness è uno stato o una attività? Appare evidente come in letteratura scientifica il termine di Mindfulness sia stato utilizzato in 4 accezioni distinte:

  • Mindfulness come pratica meditativa tradizionale. In questa categoria rientrano le pratiche meditative in genere associate a uno sviluppo spirituale ed etico come quelle proposte dal Buddhismo e dallo Zen, comprese altre tradizioni spirituali come il Cristianesimo o al Sufismo che utilizzano pratiche meditative.
    Mindfulness come pratica clinica. È quella di cui parliamo in questa sezione, come MBCT o l’ACT e anche, in parte, MBSR. In questa categoria rientrano quelle pratiche meditative che prescindono dall’adesione ad una visione spirituale e che potremmo definire laiche. Chi le utilizza è una popolazione con disturbi o disagio psichico, o persone che hanno difficoltà nella gestione dello stress o ancora persone con difficoltà relazionali.
    Mindfulness come stato. È quello stato che si raggiunge anche dopo soli 10 minuti, sebbene non si possa parlare di vere e durature modificazioni del Sistema Nervoso
    Mindfulness come tratto. In questa categoria consideriamo la Mindfulness come uno dei tratti di personalità, frutto della interazione tra tratti della persona, eventi di vita e allenamento, vedi le pratiche di consapevolezza.
  • Questa classificazione non deve essere intesa come qualcosa di rigido ed assolutamente impermeabile. È esperienza comune di tanti istruttori di Mindfulness che frequentemente la partecipazione ad un corso MBSR, o ad interventi clinici basati sulla Mindfulness abbia portato a un approfondimento di tipo spirituale o religioso con una adesione a movimenti più tipicamente spirituali come il Buddhismo o il Cristianesimo. Approfondiremo questo aspetto nella sezione Mindfulness e spiritualità.

Nella tabella che segue abbiamo indicato i vari protocolli che utilizzano la Mindfulness in maniera maggiore o minore.

  • MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy)
  • ACT (Acceptance & Commitment Therapy)
  • MBMP (Mindfulness Based Medical Practice)
  • BDT (Behavioral Dialectical Therapy)
  • SSFST (Spiritual Self Focus Schema Therapy)
  • PRBM (Prevenzione delle Ricadute Basate sulla M)
  • STMB (Allenamento Sportivo MB)
  • ACMBM (Allenamento Consapevolezza del Mangiare)
  • CGNBM (Cura Genitoriale del Neonato B M)
  • ABBM (Allenamento al Benessere Basato sulla M)

Limiteremo l’analisi ai primi 2 mentre per quanto riguarda MBMP rimandiamo alla apposita sezione Mindfulness e pratica medica.

MBCT Il protocollo della Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness è stata messa a punto da Teasdale e collaboratori utilizzando lo scheletro del protocollo MBSR ma ponendo una attenzione particolare ad alcuni aspetti che caratterizzano la sintomatologia del soggetto depresso. Sappiamo che chi ha sofferto di un episodio importante di depressione tenderà a riproporre degli schemi cognitivi capaci di far precipitare di nuovo in una condizione depressiva. Questo protocollo unisce la terapia cognitivo comportamentale alla Mindfulness. Si associa la psico-educazione sui meccanismi che sottostanno alla depressione alle pratiche di consapevolezza: ci si educa così a prendere contatto con i propri pensieri ed emozioni disfunzionali senza combatterli, negarli ma accettandoli. In estrema sintesi la MBCT pone un’attenzione particolare al rimugginio e alla fusione con i pensieri. Abbiamo già ampiamente descritto come la Mindfulness agisca su questi due aspetti: qui ne diamo una sintesi. Vediamoli in dettaglio.

  • Rimugginio: Intendiamo con questo termine quella attività mentale, in certo senso fisiologica ma che nei depressi per intensità e pervasività diventa patologica, caratterizzata da un continuo ritornare della mente a giudizi, in genere autosvalutativi, rigidità di pensiero, incapacità di prendere in considerazione ipotesi alternative, etc. Buona parte del protocollo si basa sull’apprendimento di nuove e diverse capacità di auto osservazione del proprio panorama mentale. Si può prendere consapevolezza della ricorsività dei propri pensieri disfunzionali che sono la principale causa delle ricadute di tipo depressivo. Si può prendere consapevolezza della presenza di quella che è stata definita “Radio Disastro”, quella radio che trasmette h24 nella nostra mente ricordando i nostri errori, limiti, previsioni negative che non possono non avverarsi, gli scenari peggiori, etc. Prendendo consapevolezza di questa “radio” si potranno disinnescare i meccanismi che tendono alla ricaduta depressiva.
  • Fusione con i pensieri: Questa caratteristica è strettamente legata al rimugginio e rappresenta una delle caratteristiche comuni a diverse condizioni di disagio psicologico. Anche della fusione con i pensieri possiamo dire che si tratta di una condizione comune a tutti ma che in caso di disagio psicologico diventa pervasivo e disfunzionale. Ad esempio è normale fondersi e immedesimarsi con un film particolarmente coinvolgente; diventa disfunzionale quando crediamo a quanto la nostra mente ci racconta, come fosse verità assoluta. La MBCT ci insegna a defonderci dai nostri pensieri, a non credere a quanto questi ci dicono. In particolare possiamo disinnescare gli effetti negativi osservando il nostro panorama mentale come appunto un’opera teatrale, in cui i pensieri sono come gli attori che salgono sul palcoscenico dicono poche battute ed escono di scena. Così possiamo dire semplicemente “questi pensieri non sono io”.


ACT:
La Acceptance & Commitment Therapy (ACT) è un protocollo esperienziale, validato scientificamente che fa parte della cosiddetta “terza onda” della terapia cognitivo-comportamentale. Il punto centrale, e la novità, di questa psicoterapia è quella di aver cambiato il paradigma e lo scopo della terapia psicologica: non più l’eliminazione del sintomo o il sopportare i propri pensieri o emozioni ma il cambiamento nei confronti del sintomo stesso; evitando quanto abbiamo già descritto in altra parte del sito come gli “obbiettivi del cadavere”. Nell’ACT, dunque, non interessa eliminare i pensieri intrusivi o autosvalutativi quanto piuttosto prendere contatto profondo con lo svolgersi dell’esperienza sia interna (pensieri, ricordi, emozioni, etc ) che esterna, quanto la vita ci mette davanti; evitando che questi diventino gli autisti della nostra vita. L’ACT, proprio per queste caratteristiche fa della Mindfulness uno dei sei pilastri della flessibilità psicologica che è la cifra del benessere; stare bene che non è il non avere emozioni disturbanti ma stare bene con queste. Vivere il “momento presente in modo non giudicante” ci insegna ad accettare l’insieme dell’”intera catastrofe” della vita. Nello stesso tempo, l’ACT ci insegna a sperimentare e a distinguere tra “io che pensa, sente, e sperimenta” e il prodotto del pensare, i pensieri, del sentire, le emozioni, e dello sperimentare, le sensazioni. Contemporaneamente l’ACT ci invita a procedere nella direzione dei nostri valori, intesi non nel senso etico quanto piuttosto della direzione verso cui vogliamo dirigere la nostra vita attraverso un’azione impegnata. Gli altri due aspetti che caratterizzano l’ACT sono rappresentati dall’accettazione, processo attivo e non un semplice farci andare bene le cose, e la defusione dai pensieri la capacità di non essere fusi con i propri pensieri, ma considerandoli un semplice ”oggetto” prodotto inconsistente e mutevole dell’”officina mente”.
Questi aspetti, che sono centrali, trovano ragione d’essere nell’ipotesi che sta alla base dell’ACT: la sofferenza psicologica è dovuta all’evitamento esperienziale, alla fusione con i propri pensieri, al giudizio continuo sui propri pensieri, emozioni e sensazioni e alla mancata accettazione di pensieri, emozioni e sensazioni disturbanti. L’evitamento esperienziale porterà ad evitare situazioni, persone, attività etc capaci di determinare sofferenza o disagio psicologico.
Facciamo l’esempio di un paziente che ho seguito affetto da attacchi di panico. Tale persona presentava uno stato di ansia profonda ogni qual volta si trovava in spazi affollati come supermercati e centri commerciali, oppure spazi aperti. Al fine di evitare questo profondo disagio ha cominciato ha evitare queste situazioni. Il problema però è che progressivamente ha sempre più ristretto le sue attività: alla fine evitava di andare anche dal fornaio sotto casa. Certamente non aveva più attacchi di panico ma nello stesso tempo la sua qualità di vita si era sempre più impoverita: la soluzione adottata era più grave e più devastante in termini di qualità di vita del sintomo ansia. Non solo ma in lui si associavano pensieri svalutativi che non facevano altro che peggiorare il suo disagio. La spiegazione, di questo come di altri disturbi, è legata al fatto che il nostro cervello funziona con la modalità del problem solving: c’è un problema dunque devo trovare una soluzione che elimini il problema. Questo sistema funziona molto bene nella meccanica, nella fisica e nella vita di tutti i giorni. Il problema nasce nel momento in cui applichiamo lo stesso metodo a quel mondo che sta in mezzo alle nostre orecchie, il mondo mentale. Come sostenuto dalla psicologia buddhista “il dolore è inevitabile, la sofferenza è opzionale”: la sofferenza nasce nel momento in cui applichiamo soluzioni che non solo non risolvono il problema, l’ansia in questo caso, ma generano soluzioni che finiscono per generare più problemi di quelli che risolvono.

Possiamo tradurre ACT come accettazione attiva e azione impegnata: non dobbiamo aspettare di non provare ansia (altro obbiettivo del cadavere…) per cominciare a vivere una vita piena e significativa nella direzione dei nostri valori

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